Si potrebbe dire che "Brooklyn's finest" sia un grande film, uno splendido ritratto sull'america maledetta e la polizia sporca, sulla perdita dei punti di riferimento e dei valori di una società, sul ricatto e sul decadente modo di vivere di questa società. Si potrebbe dire che Richard Gere sia uno straordinario attore, e che dietro la sua reputazione di belloccio si possa non dico vedere, ma esaltare la sua capacità di recitazione. O che il cast d'eccezione che recita nel film, oltre a raccogliere applausi perché ogni nome ha fatto un po' di storia del cienema e ha intascare i milioni di dollari della produzione, sia davvero all'altezza delle aspettative; che sia un film ritratto della nostra epoca, in fondo al quale tutti ci possiamo rispecchiare e accanto al quale ritroviamo tutti i pensieri che ci hanno accompagnato giorno dopo giorno. Si potrebbe anche dire che i cambiamenti di prospettiva, la coesistenza di più storie che si sovrappongono, la rappresentazione di un mondo senza speranza gettato nel caos totale, rendono il film piacevole e gli danno una tensione emotiva che coinvolge lo spettatore, uno spettatore rapito, innamorato, che si rende conto di aver davanti uno dei più grandi capolavori della Hollywood moderna. Si sarebbe potuto dire che una produzione del genere, e un cast del genere, avrebbero reso questo non uno dei soliti ordinari film di Hollywood, ma un'incredibile novità, un rivoluzionario punto di vista.
Ecco, appunto, si sarebbe potuto dire. Solo e unicamente nel caso in cui tutte queste condizioni non si fossero verificate.
Oppure, se avessi parlato di un altro film.
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